A Hong Kong le elezioni legislative hanno visto il successo del movimento Occupy. Che chiede democrazia e indipendenza dalla Cina. Come reagirà il regime? La città ha un ruolo chiave e l’abbandono del modello “un paese due sistemi” costerebbe caro sia all’ex protettorato britannico sia a Pechino.
Una porta verso la Cina
Con l’affermazione del movimento Occupy nelle elezioni del 4 settembre, Hong Kong è ridiventata una spina nel fianco del governo di Pechino. Infatti, a quasi vent’anni dalla riunificazione dopo il lungo protettorato britannico (1841-1997), la città è ancora oggi il principale punto di snodo del commercio e degli investimenti da e verso la Cina, ma con l’indipendenza politica – che alcuni esponenti di Occupy chiedono – diventerebbe il tallone d’Achille del colosso cinese.
Con la crescita delle tensioni democratiche a Hong Kong, il tema della sua importanza economica per il resto della Cina è tornato alla ribalta nel tentativo di capire le possibili risposte di Pechino. Hong Kong è da tempo il ponte tra la Cina e il mondo, veicolo di commerci e di capitali in entrambe le direzioni e snodo imprescindibile dell’apertura economica e finanziaria cinese, che ha beneficiato enormemente dello status di Special Administrative Region (Sar) assegnato nel 1997 all’unica città cinese totalmente integrata nell’economia globale. Hong Kong è anzi un’economia tra le più efficienti e competitive del mondo, a pari merito con Svizzera, Germania, Olanda, Giappone e Finlandia, secondo il ranking del World Economic Forum 2016, ma sotto il controllo del partito comunista cinese.
Nonostante il suo peso dal 1997 sia fortemente diminuito – la sua quota sul Pil cinese è scesa dal 16 al 3 per cento – il suo ruolo economico e finanziario è indispensabile al resto della Cina. E sotto molti aspetti la sua posizione si è rafforzata, non erosa, negli anni più recenti. Per esempio, secondo Dealogic, è la piazza più importante per la raccolta azionaria destinata alle imprese cinesi, con 43 miliardi di dollari in Ipo (offerte pubbliche iniziali) dal 2012, rispetto ai 25 miliardi raccolti sulle borse cinesi.
Hong Kong e la Cina sono poi legate a doppio filo dagli scambi commerciali e da una serie di accordi bilaterali, come il Closer Economic Partnership Arrangement (Cepa) in vigore dal 2003 e Agreement on Trade in Services attivo dallo scorso giugno, entrambi per liberalizzare gli scambi di merci e servizi, secondo i quali Hong Kong è il secondo partner commerciale della Cina (dopo gli Usa) e al contempo la Cina è il primo mercato di destinazione per Hong Kong dal 1985 (oltre il 50 per cento per le esportazioni e per le importazioni).
Gli investimenti esteri
Ma il ruolo più importante è quello di hub per gli investimenti da e verso la Cina. Hong Kong è la fonte principale di investimenti diretti esteri (Ide) per la Cina (il 44,7 per cento del totale alla fine del 2015, spesso con capitali provenienti dalla stessa Cina) e al contempo la destinazione principale degli Ide cinesi in uscita (il 57,8 per cento dello stock totale).
Tabella 1 – Ide da Hong Kong verso la Cina
Fonte: Hong Kong Trade Development Centre su dati China Monthly Statistics |
Le imprese estere usano Hong Kong come trampolino per investire in Cina, perché offre ciò che nessuna altra città cinese (e non) ha: protezione degli investitori, sistema giudiziario trasparente ed efficiente, certezza del diritto. Inoltre, negli ultimi anni, Pechino l’ha usata per testare una serie di riforme finanziarie: l’accettazione dello yuan come valuta di riserva globale è iniziata a Hong Kong nel 2009 con un esperimento sulla regolazione degli scambi di valuta; Hong Kong è anche sede del principale mercato borsistico di obbligazioni “dim sum” – titoli obbligazionari denominati in yuan emessi all’estero. Tutto ciò garantisce alla città di poter rimanere una piazza finanziaria cruciale per i capitali cinesi.
È vero che l’esposizione di Hong Kong verso il resto della Cina è molto più grande di quella cinese verso la città: se Pechino volesse compromettere la loro relazione così speciale, a soffrirne di più sarebbe di certo Hong Kong. Ma anche la Cina ne pagherebbe amare conseguenze.
Fonte: www.lavoce.info
L'AUTRICE
ALESSIA AMIGHINI
Professore associato di Politica economica presso l’Universita' del Piemonte Orientale e Associate Senior Research Fellow nel programma Asia dell'ISPI. E' stata visiting scholar presso il Department of International Business and Economics dell'Universita' di Greenwich ed economista presso la United Nations Conference on Trade and Development.
Ha pubblicato numerosi articoli sull’economia cinese e sull'espansione delle imprese cinesi all'estero su riviste accademiche internazionali quali China Economic Review, China and the World Economy, International Economics, World Development, World Economy. Tra i libri: L'economia della Cina nel XXI secolo (con F. Lemoine), Il Mulino (in corso di pubblicazione); L'économie de la Chine au XXIè siècle (con F. Lemoine), La Découverte (in corso di pubblicazione); China Dream: Still coming True?, ISPI, 2016; Xi Jinping's policy gambles: The bumpy road ahead (con A. Berkofski), ISPI, 2015 e L'economia della Cina (con S. Chiarlone), Il Mulino, 2006.
Ha pubblicato numerosi articoli sull’economia cinese e sull'espansione delle imprese cinesi all'estero su riviste accademiche internazionali quali China Economic Review, China and the World Economy, International Economics, World Development, World Economy. Tra i libri: L'economia della Cina nel XXI secolo (con F. Lemoine), Il Mulino (in corso di pubblicazione); L'économie de la Chine au XXIè siècle (con F. Lemoine), La Découverte (in corso di pubblicazione); China Dream: Still coming True?, ISPI, 2016; Xi Jinping's policy gambles: The bumpy road ahead (con A. Berkofski), ISPI, 2015 e L'economia della Cina (con S. Chiarlone), Il Mulino, 2006.
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